Se oggi abbiamo una storia è perché non abbiamo dimenticato il passato. Perdere il passato, infatti, significa smarrire il presente, l’identità che ci contraddistingue, E con essa il nostro futuro. Narrarla significa sottrarre al tempo la capacità di obliarla, riducendola in polvere, come coloro che l’hanno vissuta.
Nasce cosi l’idea di un progetto editoriale – libro con dvd – che possa raccontare la storia delle società sportive reggiane che partecipano alla Fondazione per lo Sport del Comune di Reggio Emilia. Lo abbiamo intitolato “Tempo – Piccole e grandi storie”, Il ‘tempo’ è un elemento di primo piano nello sport, dove si può anche fermare, ed è l’asse attorno a cui si svolgono le storie, grandi e piccole.
Raccontare la storia delle nostre società sportive, significa anche consegnare alla coscienza della città il valore, troppo spesso anonimo e silenzioso, di chi invece ne ha pazientemente e umilmente disegnato il profilo e colorato l’immagine.
Non si ha la pretesa che la narrazione sia esaustiva e rigorosamente documentaria. Solo pennellate, frammenti di racconti che possano trasferire emozioni e saperi. Tracce di storia di piccoli e grandi ‘eroi’, delle loro passioni, della loro capacità di realizzare e concretizzare i sogni. Protagonisti, in ogni caso, di quel ‘fare’ locale, capace di creare valori e comunità.
Sono queste le ragioni che hanno spronato la Fondazione per lo Sport a volersi cimentare in questo progetto editoriale. Perché sapere chi siamo e da dove veniamo, raccontare cosa facciamo e come lo facciamo, significa costruire insieme il senso del nostro agire. Perché anche la storia della Fondazione è la storia di coloro che ne fanno parte.
Milena Bertolini
Presidente della Fondazione per lo Sport
del Comune di Reggio Emilia
Prologo
Lucia Zanetti
Un arco e una freccia, l’incocco e la tensione-non tensione che prepara il lancio. L’immagine accende antiche memorie del nostro Dna: sono legate alla sopravvivenza e all’avventura, alle battaglie e al gioco. Per questo può succedere che a Reggio Emilia, se si passa da via della Canalina, all’altezza del civico 17, venga la voglia di fermarsi a guardare attraverso la rete metallica e magari, una volta, si decida di varcare il cancello che introduce nel campo comunale “Adriano Tonelli”, gestito dagli Arcieri del Torrazzo. Qui, dalla primavera fino alle belle giornate autunnali, i paglioni sono sempre schierati sul campo verde e pronti con i loro bersagli dai dieci cerchi concentrici colorati, con in mezzo il magnetico giallo. Per l’inverno c’è la sala da tiro, costruita dagli arcieri una ventina di anni fa. Nell’impianto della Canalina si trova costantemente qualcuno che tira a ogni ora del giorno, durante la settimana e i fine settimana. Funziona così: dal momento che diventi socio della Asd Compagnia Arcieri del Torrazzo, ti vengono consegnate le chiavi di accesso al campo, così ti puoi allenare quando e quanto vuoi; perché di fatto, il tiro con l’arco è uno sport individuale.
Puoi essere da solo o circondato da persone, attorniato dal silenzio o dalla confusione, l’obiettivo non cambia: quando tiri, devi fare il vuoto fuori di te e dentro di te. E questo vale sia usando l’arco olimpico, che l’arco istintivo o il compound; sono infatti queste le tre divisione arcieristiche previste dall’ordinamento federale.
Però l’impianto sportivo degli Arcieri del Torrazzo si riempie anche d’incontri e di feste. Ogni occasione è buona per fare qualcosa insieme, con naturalezza. Il porticato è dotato di vari tavoli e sedie per i momenti di socializzazione dei 130 aderenti — dai 7 anni fino a che riesci a tendere l’arco più le famiglie, i fidanzati, le fidanzate e gli amici. Qui si respira un’atmosfera rilassata, come di casa.
Ed è in questo clima che inizia il mio viaggio di conoscenza nel mondo del tiro con l’arco, E da subito una mia idea viene sfatata: per questa disciplina sportiva, o meglio, per quest’arte, contrariamente a quanto pensavo, non è necessario avere una vista acuta. Il fraintendimento cade immediatamente al primo incontro con Marinella Comi, presidente degli Arcieri del Torrazzo, e Carlo Campioli, un veterano del tiro con l’arco, istruttore e coordinatore delle attività dell’associazione. Così la mia curiosità si accende fin dal primo appuntamento, organizzato per conoscere la realtà di questa associazione sportiva reggiana che ha giusto festeggiato 40 anni di vita.
Il viaggio inizia e il percorso non è scontato, così come il bersaglio da colpire, quello vero, quando si scocca la freccia
La storia nella storia
Lucia Zanetti
Nel nostro immaginario collettivo, l’arco si rifà al Medioevo, ai suoi romanzi e leggende, come quella di Robin Hood. Ma ancora prima, ci arriva da narrazioni antichissime, come i poemi epici di Omero. Per trovarne traccia nella nostra storia, dobbiamo andare alle pitture rupestri della grotta di Altamira in Spagna, che risalgono al Paleolitico Superiore, ovvero da 40mila a 10mila anni fa. Il primo inequivocabile ritrovamento si rifà invece al periodo di transizione fra il Mesolitico e il Neolitico (circa 8mila anni fa): si tratta degli archi rinvenuti nell’acquitrino di Holmgaard, in Danimarca, costituiti da una singola asta di olmo con impugnatura rigida, a separare flettenti larghi e appiattiti. L’arco è uno dei primi congegni primitivi evoluti con cui i nostri progenitori poterono procacciare il cibo, a una certa distanza di sicurezza. Nei millenni successivi, l’utilizzo di archi e frecce si diffonde sempre più fra le culture antiche di tutto il mondo, trasformandosi poi, da solo utensile per la caccia, ad arma per conflitti e guerre, fino all’avvento e all’uso massiccio della polvere da sparo.
Quindi arco, faretra e freccia è come facessero parte delle nostre informazioni primarie. Deve essere per questa ragione che Giulio Mussini, quando vide per la prima volta un arco, ne fu catturato. Era il 1970 e si trovava al poligono di tiro di Reggio Emilia, mentre il suo amico Gigi Mazzieri arrivava lì con arco e freccia. Mussini, campione internazionale di tiro, lo provò e si appassionò immediatamente. Amore a prima vista anche per Franco Boeri, che diventerà poi il primo presidente della Compagnia Arcieri del Torrazzo, nel giorno 1 di gennaio del 1974.
I semi della futura Compagnia germogliavano così, con alcuni amici entusiasti che si ritrovavano la sera per una pizza e per parlare di tiro con l’arco.
All’epoca, non esisteva nulla a Reggio Emilia e poco anche in Italia. I fondatori reggiani Franco Boeri, Giulio Mussini, Romano Orlandini, Enrico Davoli, Luigi Mazzieri, Marco Bianchini ed Enrica Cavalletti coltivavano la loro passione anche costruendo i loro archi, poi provando i tiri dove pote vano e consultando voracemente le riviste americane tematiche.
Negli Stati Uniti il tiro con l’arco era infatti molto seguito; è qui che nasce come disciplina sportiva all’inizio dell’Ottocento. Merito di alcuni entusiasti che, attingendo alla grande tradizione arcieristica militare inglese, costruirono i primi archi sportivi, perfezionarono la tecnica di tiro, codificarono e regolamentarono l’attività agonistica.
Alle prime Olimpiadi dell’era moderna, svoltesi ad Atene nel 1896, l’arco non era presente perché in Grecia non esisteva una Federazione nazionale e non era ancora nata quella internazionale. Il tiro con l’arco — che è stato il secondo sport, dopo il tennis, ad ammettere gare femminili invece a Parigi nel 1900 e poi ancora in alcune edizioni successive, quando il paese organizzatore aveva una propria Federazione. Fu poi comunque escluso dai giochi olimpici a partire dal 1920, per l’assenza di una Federazione internazionale. La Fita (Federazione internazionale di tiro con l’arco) prende vita solo nel 1931, nello stesso anno in cui si colloca anche la nascita dell’arco moderno in Europa e precisamente nella città polacca di Leopoli. Il tiro con l’arco sarà poi sempre presente alle Olimpiadi, a partire dall’edizione di Monaco di Baviera nel 1972.
In Italia questa disciplina fu a lungo considerata poco più di un passatempo per ragazzi. Iniziò ad essere praticata come sport negli Anni 30. Durante il regime fascista era riservata alle “Giovani italiane”. Nel 1955, a Treviso, prese forma la prima società italiana. Da lì iniziano a essere organizzate le competizioni, aperte a entrambi i sessi. L’Italia costituisce la propria Federazione, la Fita, nel 1961. Alla fine degli Anni 60, le Compagnie italiane erano 14.
I luoghi dell’avventura reggiana
Si possono considerare ancora dei pionieri i fondatori che diedero vita alla Compagnia Arcieri del Torrazzo a Reggio Emilia. Nel 1974, infatti, le società italiane erano meno di 40 e la tecnica era molto sommaria. Per esempio, come mirino usavano un cerino attaccato, con nastro adesivo, alla finestra dell’arco. Boeri racconta che a Reggio iniziano a praticare nel campo da calcio vicino alla piscina, con cartoni ammucchiati uno su l’altro come bersagli, a ridosso del muro di cinta. Non avevano istruttori e tiravano come vedevano fare nei film.
In seguito, siccome sembrava interferissero con il gioco del calcio, il Comune trovò loro posto in un campo di calcio in ristrutturazione a Roncocesi, Dovettero però traslocare anche da lì, quando si trattò di rifare il manto erboso. Il loro successivo peregrinare passò dallo spiazzo dietro alla chiesa del Buco del Signore, ai terreni incolti dello Csi in via Agosti. Hanno vissuto però una bella parentesi, grazie al conte Pietro Manodori che, nel frattempo, si era iscritto alla Compagnia. In quel periodo, la famiglia Manodori abitava nella tenuta di Roncolo.
Il figlio Giampiero ci racconta che il padre aveva trasformato una vecchia talla in sala da tiro. Così gli arcieri del Torrazzo potevano andare lì per qualche chiacchierata e per allenarsi. Inoltre, nei prati e nei boschi circostanti, venivano organizzate gare di campagna, con bersagli a varie distanze. Un bell’ambiente, che permetteva loro di trovarsi insieme, accomunati alla stessa passione.
A metà degli Anni 80, ci fu una svolta definitiva per il campo degli arcieri.